MILANO: Al convegno sullo Strategic
Global Sourcing, che Business International ha organizzato ieri, 5
luglio, al Gallia di Milano, si è parlato soprattutto delle
opportunità che nascono in seno ai mercati dei "low-cost
countries", in particolare India e Cina.
Tra gli oratori, chi ha focalizzato l''attenzione su quest'ultimo
mercato è stato un manager che, per lavoro, in Cina quasi ci vive:
Valentino Blasone, responsabile acquisti materie prime e
coordinatore acquisti operations estere del Gruppo Natuzzi.
Per il Gruppo la Cina è stata uno dei tasselli fondamentali nei
progetti di internazionalizzazione e delocalizzazione, con ottimi
esiti e risultati.
Proprio in virtù del successo ottenuto, abbiamo voluto rivolgere
qualche domanda in più a Blasone, per meglio comprendere come il
Gruppo Natuzzi abbia ottimizzato le opportunità del mercato
cinese.
Nicola Ricciardi: Dottor Blasone, introduciamo l'argomento. Come e
quando è stato l'ingresso del Gruppo Natuzzi nel mercato
cinese?
Valentino Blasone: La nostra esperienza in Cina dura ormai dalla
fine degli anni '90. Abbiamo stabilimenti produttivi dal 2000, e
una valida struttura commerciale che opera con successo sul mercato
cinese.
Grandi problemi non ne abbiamo incontrati, tuttavia è stato
inevitabile confrontarsi con la diversità di gestione, dovuta alla
differenze culturali. Differenze che certo non impediscono di fare
un buon business. Come Natuzzi, che in Cina ha avuto e sta avendo
un'ottima esperienza.
NR: Natuzzi, dopo aver sfondato nel mercato americano, ha sentito
la necessità di entrare in quello cinese, anche per produrre. Stava
subendo la concorrenza?
VB: La scelta della delocalizzazione in Cina è stata certo anche
condizionata dalla concorrenza cinese. E' stata una necessità
soprattutto per i prodotti primo prezzo, in cui la concorrenza
asiatica in generale era ed è molto forte. Sfidare questa
concorrenza partendo dalla produzione italiana non è più
sostenibile.
NR: Come è avvenuto il processo di delocalizzazione? Avete avuto
bisogno di partnership, di una certa copertura, anche
finanziaria?
VB: Diciamo che è stato un percorso progressivo. Siamo partiti con
un programma di investimento ben preciso, costante e progressivo
nel tempo. Le vere necessità per una buona delocalizzazione in Cina
sono tempi ben calcolati e strategie a lungo termine ben definite.
Non si può improvvisare.
NR: Ora che vi siete affermati, con due stabilimenti e un'ottima
rete commerciale, quali sono le prospettive per il vostro futuro in
Cina?
VB: La Cina continua ad essere un mercato fondamentale, sia dal
punto di vista della produzione, sia come bacino d'acquisto di
materie prime, e anche ovviamente dal punto di vista
commerciale.
La nostra espansione nella catena di vendita continua. La Cina
rimane fulcro di tutte le nostre strategie. È un mercato fortemente
strategico.
NR: Com'è vista oggi la Natuzzi dagli operatori cinesi?
VB: Sicuramente oggi siamo molto più conosciuti di ieri, e la
nostra presenza si fa sempre più significativa. Il nostro marchio è
di fatto riconosciuto, soprattutto per quanto concerne i valori del
Made in Italy e dell'Italian style. Valori di ottima reputazione in
Cina.
NR: E qual'è invece il rapporto con il personale interno cinese?
Quali sono le vostre politiche per le risorse umane?
VB: Nelle nostre società in Cina la maggior parte degli impiegati è
cinese. Non solo a livello di operativi ma anche in ruoli
manageriali, con una limitata presenza di personale
dell'headquarter per alcune funzioni che sono ritenute
particolarmente delicate dal punto di vista gestionale.
Il nostro fine resta quello di mirare ad avere il più possibile
personale locale.
NR: Un'ultima domanda, prendendo spunto dai distretti
industriali.
Ho notato che molti distretti del centro-nord d'Italia, soprattutto
quelli veneti, lombardi e toscani, tendono a fare distretto proprio
per avere le risorse necessarie per vendere e delocalizzare,
aprendosi la strada al mercato attraverso fiere ed eventi.
La Natuzzi, che nasce all'interno del distretto del mobile di
Matera, che rapporto ha con il proprio distretto, in relazione al
mercato cinese?
VB: Guardando alla realtà dei fatti questo spirito di distretto di
fatto non c'è. Le aziende che hanno de-localizzato all'estero nel
campo del mobile lo hanno fatto in modo autonomo, non coordinandosi
tra di loro. Chi ha seguito il nostro esempio lo ha fatto più per
necessità che per spirito di distretto. Che alla fine rimane solo
una realtà geografica.
Mi permetto di spendere una parola in più su questa carenza di
"spirito di distretto".
Se è indiscutibile che Natuzzi abbia avuto successo in Cina, è
anche vero che la sua formula non è facilmente applicabile alle PMI
italiane (cioè alla quasi totalità delle nostre aziende), che non
hanno simili dimensioni e capitali.
Se Cina e delocalizzazione sono dimensioni lontane dall'ottica
delle piccole-medie imprese è anche in virtù della loro ridotta
estensione (spaziale e gestionale).
Allora, forse, agire come distretto potrebbe essere la chiave per
acquisire il giusto peso e limitare l'handicap dimensionale. Così
da poter entrare nel mercato cinese con un passo più sicuro. E con
le spalle meglio coperte.