Manuale Operativo Franchising
Per chi è: Ideale per franchisor, il...
In un momento di grave congiuntura economica come quello attuale, nel quale l’accesso al credito per le imprese appare quanto mai difficile e laborioso, sono due, principalmente, le forme contrattuali d’impresa che consentono l’inizio di nuove attività economiche con l’impiego di minori risorse economiche per gli investimenti di start-up: il contratto di franchising e il contratto d’affitto d’azienda.
Può quindi tornare utile fare un raffronto comparato tra le due fattispecie al fine di individuare lo schema economico-contrattuale che, a seconda del tipo di attività che si vuole incominciare, e alla “forma” che gli si vuole dare, può risultare più idoneo allo scopo perseguito.
Il contratto d’affitto d’azienda è disciplinato dagli artt. 2555 e ss. del codice civile. La finalità di tale contratto è un trasferimento non definitivo, ma solo temporaneo, del complesso aziendale, inteso come il complesso unitario di tutti i beni - mobili e immobili, materiali e immateriali (si pensi ai marchi, ai brevetti o all’avviamento) - organizzati per la produzione di beni o servizi, ossia per l’esercizio di un’impresa.
Per effetto della stipula di un contratto di affitto d’azienda il titolare di quest’ultima – detto concedente - attribuisce l’intera gestione della stessa azienda a un terzo, chiamato affittuario, che si obbliga:
1) a gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservarne l’efficienza dell’organizzazione, degli impianti e delle scorte;
2) a pagare al concedente un corrispettivo, il cd. canone d’affitto, per l’utilizzo dell’azienda. Non necessariamente è oggetto di trasferimento l’avviamento commerciale.
ll contratto di franchising, regolato dalla legge
129/2004, è quell’accordo con cui il franchisor
concede al franchisee, tra l’altro, la
“disponibilità”, per la commercializzazione di determinati
beni o servizi, di diritti di proprietà industriale e intellettuale
– tra cui marchi, brevetti segni distintici e know-how –
inserendolo in una rete commerciale diffusa sul territorio e a
fronte del pagamento, da parte del franchisee, di un
corrispettivo.
Nel contratto di franchising, oggetto del “trasferimento” sono
quindi, essenzialmente, il know-how e l’ utilizzo dei
diritti di proprietà industriale e intellettuale di cui è
titolare il franchisor il quale, tuttavia, a differenza del
concedente l’affitto, non si “spoglia” di tali beni immateriali e
tantomeno della sua azienda: concede semplicemente l’uso di alcuni
sui beni a fronte di un corrispettivo, la fee di ingresso e,
eventualmente, di royalties periodiche calcolate, di norma, sul
fatturato.
Il concedente trasferendo l’azienda trasforma il suo rischio
imprenditoriale nell’aspettativa di un rendimento periodico
formalmente certo e predeterminato – il canone d’affitto che deve
ricevere dall’affittuario – mentre quest’ultimo può intraprendere
un’attività imprenditoriale, assumendosene la responsabilità, senza
dovere affrontare iniziali pesanti investimenti per costituire
l’azienda.
Proprio quest’ultimo profilo – ovvero il minor impegno economico in
termini di investimenti iniziali – presenta profili di similitudine
con il franchising poiché, anche in quest’ultimo, il franchisee
consegue il risultato pratico di cominciare un’attività
imprenditoriale “saltando” in gran parte la fase di start-up ed
inserendosi in una rete di affiliati già presenti sul mercato con
una formula commerciale “avviata” – si presume - con successo.
Mentre nel contratto d’affitto d’azienda il canone
costituisce il corrispettivo per la disponibilità e l’utilizzo
del bene “azienda”, ed è un elemento essenziale del contratto
d’affitto - nel franchising il corrispettivo, sotto forma di
fee di ingresso e, eventualmente, royalties, è il
prezzo versato dal franchisee per il trasferimento e l’uso
del know-how, per l’uso dei segni distintivi e l’assistenza
commerciale, tecnica e amministrativa del franchisor. Fee e
royalties, se previste, sono quindi il corrispettivo per la
disponibilità di singoli assets – oltre al godimento di
servizi - che non costituiscono, in sé e per sé, un’azienda.
Anche nell’azienda trasferita con il contratto d’affitto possono
ben confluire, come beni immateriali, marchi, brevetti, modelli di
utilità e un know-how, ma questi non vengono in rilievo
singolarmente presi bensì come assets appartenenti, appunto, al più
vasto complesso di beni organizzato per l’esercizio di un’impresa e
dunque il canone va a pagare l’uso del complesso interamente
considerato e non dei singoli assets che lo compongono.
Per quanto riguarda i contratti in essere, tra il concedente
l’azienda e i terzi, al momento della concessione in affitto
dell’azienda, il codice civile prevede la norma generale per
la quale i contratti “aziendali” – ossia quelli conclusi
per l’esercizio dell’impresa e che siano a prestazioni
corrispettive - si trasferiscono automaticamente
all’affittuario, con la sola esclusione dei contratti con carattere
personale (cioè i contratti per i quali l’identità delle parti è
requisito fondamentale per i contraenti).
Esiste dunque un principio generale di “continuità” economica e
gestionale tra cedente e cessionario che è derogabile potendo le
parti prevedere l’espressa esclusione di tale meccanismo per uno o
più contratti.
Nulla di tutto ciò è, al contrario, previsto per il franchising. In
esso il franchisor e il franchisee – seppure riuniti nell’esercizio
dell’attività imprenditoriale all’interno di una rete e sotto gli
stessi segni distintivi – sono pur sempre imprenditori
“economicamente” e “giuridicamente” autonomi, come li definisce la
legge 129/2004, e pertanto franchisor e franchisee non rispondono
delle obbligazioni contrattuali assunte dall’altro. Non vi è dunque
nessuna successione “legale” nei contratti tra franchisor e
franchisee.
Tali meccanismi hanno una connotazione particolare nel caso dei
contratti di lavoro subordinato.
Pur restando ferma l’autonomia giuridica tra franchisor e
franchisee, la circostanza che il franchisee operi sotto il marchio
del franchisor è una circostanza che deve essere tenuta in
considerazione con particolare riguardo alla tutela di quanti,
avendo contratto con il franchisee, attirati dal prestigio e dalla
notorietà del marchio del franchisor, si convincono erroneamente,
ma in buona fede, di avere a che fare direttamente con l’impresa
del franchisor della quale il franchisee costituirebbe una mera
unità operativa.
Sotto questo profilo la giurisprudenza ha elaborato alcuni principi
che vanno nel senso di tutelare il terzo in buona fede, prevedendo
che, delle obbligazioni o degli atti del franchisee, risponda anche
il franchisor in tutti casi in cui quest’ultimo non si sia
diligentemente adoperato, con tutti i mezzi necessari, per rendere
nota, ai terzi, la distinzione e l’autonomia tra lui e il
franchisee.
Un principio non dissimile è stato elaborato dai giudici anche per
il concedente nell’affitto di azienda: la Cassazione ha sostenuto
quest’ultimo può essere chiamato a rispondere delle obbligazioni
assunte dall’affittuario, se non abbia reso noto ai terzi
l’intervenuto affitto di azienda, a tutela del loro affidamento. La
responsabilità verso i terzi si declina tuttavia in maniera
distinta riguardo ai contratti di lavoro subordinato.
Nel contratto d’affitto d’azienda, ai sensi dell’art. 2112 c.c., i
rapporti di lavoro tra terzi lavoratori e concedente continuano ope
legis con l’affittuario; al contrario, per quel che riguarda il
franchising, proprio in forza del principio di autonomia
imprenditoriale delle parti, i lavoratori dell’una o dell’altra
parte possono esercitare i loro diritti solo verso il datore di
lavoro – franchisor o franchisee - che li ha assunti e per il quale
lavorano.
Il Tribunale di Milano, con una nota sentenza del 2005 (25.5.2005),
attenuando tale principio di “separazione”, ha tuttavia statuito
che - qualora il franchisor eserciti, nei confronti del franchisee,
soprattutto nella gestione del personale, un potere di controllo
che superi quello ritenuto ragionevole e funzionale al
coordinamento dell’attività economica richiesto dalla formula della
rete di affiliazione -, il lavoratore assunto dal franchisee possa
far valere i suoi diritti anche nei suoi confronti.
Oggetto del contratto d’affitto è il diritto, per l’affittuario,
di utilizzare – tecnicamente “gestire” – i beni organizzati in
azienda dal concedente per ricavarne un profitto a fronte del
pagamento al concedente di un corrispettivo, il canone di affitto
d’azienda appunto.
L’affittuario quindi deve essere necessariamente un
imprenditore, al pari del franchisee.
Il concedente invece - a differenza del franchisor
che, ai sensi dell’art. 1 della legge 129/04, è un imprenditore -
non necessariamente deve avere tale qualifica o, pur avendola, deve
esercitare in concreto un’attività di impresa all’atto della
sottoscrizione del contratto; il concedente può anche essere
meramente proprietario di un complesso di beni “solo potenzialmente
idoneo” a costituire un’azienda necessaria per l’esercizio di
un’attività di impresa. Ne consegue che l’avviamento non è elemento
essenziale di trasferimento dal concedente
all’affittuario.
L’art. 2557 c.c. prevede, in capo al concedente, un
divieto di concorrenza in favore dell’affittuario,
nei limiti definiti dalla norma, per i 5 anni successivi alla
concessione in affitto dell’azienda: tale divieto è inderogabile
ex lege ed è una clausola essenziale del contratto
d’affitto poiché risulta evidente che la continuazione, da parte
del concedente, di un’attività in concorrenza con quella
dell’affittuario svuoterebbe di fatto la finalità e la ragione
stessa del contratto d’affitto d’azienda.
Nel franchising, invece, come prevede l’art. 3, c. 4 della
L.129/2004, la pattuizione sul divieto di concorrenza del
franchisor è solo eventuale e va a modularsi avuto riguardo
alle eventuali “clausole di esclusiva territoriale” concesse al
franchisee.
Contrariamente a quanto si crede comunemente, l’assegnazione al
franchisee di un ambito territoriale nel quale esercitare la sua
attività non comporta, automaticamente, anche la concessione di
un’esclusiva su quel territorio; l’esclusiva, se voluta, deve
essere specificamente pattuita nel contratto, redatto in forma
scritta a pena di nullità.
Va peraltro considerato che, nel franchising, la concorrenza al
franchisee, oltre che dal franchisor, può venire anche da altri
affiliati alla rete: il franchisor può infatti, se non si obbliga a
non farlo, sia riservarsi il diritto di gestire punti vendita
diretti sia fare entrare altri affiliati nella stessa zona.
E’ rimesso dunque alla contrattazione delle parti prevedere se, e
in quali limiti, il franchisor si obbliga a non fare concorrenza al
franchisee, rimanendo peraltro di problematica soluzione, con
riguardo a un’ipotetica responsabilità extracontrattuale del
franchisor, il caso di violazioni dell’esclusiva concessa a un
franchisee da parte di un altro affiliato. Il divieto di
concorrenza nel contratto di franchising può essere unilaterale, se
posto a carico di uno solo dei contraenti (franchisee o
franchisor), ovvero bilaterale, se vincola entrambi.
L’affittuario, ai sensi del combinato disposto degli artt.
2561-2562 c.c., deve esercitare l’azienda sotto la ditta del
concedente, al fine principale di evitare il depauperamento
dell’avviamento commerciale creato da quest’ultimo: questo profilo
assimila il contratto di affitto di azienda alla disciplina del
franchising ove l’utilizzo, da parte del franchisee, dei “diritti
di proprietà industriale ed intellettuale” concessi in godimento
dal franchisor, non solo è un elemento essenziale del contratto,
ma, si può dire, è quello più tipico.
Tale elemento è così cruciale nel franchising che la legge che lo
regola, elenca la specifica indicazione dei marchi usati dal
franchisor e dalla rete tra le informazioni precontrattuali
obbligatorie che il franchisor deve fornire, all’aspirante
franchisee, almeno 30 giorni prima della sottoscrizione del
contratto.
In conclusione si può dire che, accanto a finalità in qualche modo
equiparabili – l’ingresso nel mondo dell’impresa con minori
investimenti iniziali – le due figure presentano, sotto il profilo
giuridico, più elementi di distinzione che elementi di
similitudine.
Va detto infine che queste due forme contrattuali possono anche
coesistere “parallelamente” nel regolare i rapporti tra un
franchisor e un franchisee; è il caso nel quale il franchisor
concede in affitto al franchisee un suo “ramo di azienda” – per
esempio un punto vendita diretto - funzionalmente autonomo e
necessario, per il franchisee, all’esercizio dell’impresa secondo
le regole del contratto di franchising stipulato col
franchisor.
In questo specifico caso di contratti funzionalmente “collegati”,
vanno studiati con particolare attenzione gli effetti che possono
avere, l’uno sull’altro, le vicende che interessano l’esecuzione di
uno solo dei due: argomento molto articolato che costituirà oggetto
di un prossimo approfondimento.