Manuale Operativo Franchising
Per chi è: Ideale per franchisor, il...
di Cristiano Cameroni
Un amico, appassionato di poesia contemporanea e proprietario di una biblioteca dalle dimensioni ragguardevoli, mi ha chiesto un giorno se si potesse scrivere senza leggere. Conoscendo la sua predilezione per le storielle zen e sospettando la presenza di una trappola, gli ho risposto che no, la cosa non poteva essere. Se non altro per il fatto che nell’atto stesso dello scrivere si vedono scorrere le parole.
Lui però si è messo a ridere. Lo spirito della tua risposta è giusto, mi ha detto divertito. Ma la realtà, ha aggiunto, non è come noi la percepiamo. E così dicendo mi ha scaraventato sotto agli occhi un volume poderoso, dalla copertina impegnativa, il cui titolo sgrammaticato faceva dubitare che l’autore conoscesse la lingua nella quale cercava di esprimersi.
“Lo vedi?”, gridava il mio amico in preda al furore. “Ogni giorno si stampano decine e decine di libri come questo. Mucchi di pagine che nessuno si sognerebbe di comperare, scritti da gente che non ha mai letto un libro e che magari si fregia persino del titolo di scrittore!”
In effetti il self publishing è un fenomeno sempre più diffuso. Gli americani, che chissà perché sono sempre più avanti e meglio organizzati di noi, inquadrano il fenomeno in diverse categorie. Il self publishing propriamente detto rappresenta semplicemente l’attività editoriale autonoma: in questa categoria rientrano i saggi dei professori universitari, i manuali tecnici per prodotti di nicchia e perfino le raccolte di canti ad uso religioso. Il settore più pittoresco è però quello del vanity press: una categoria che accoglie volentieri gli album di famiglia, le raccolte di poesia di qualche adolescente illuminato e i racconti o romanzi di una interminabile schiera di autori perfettamente sconosciuti.
Nel nostro Paese il fenomeno sta letteralmente esplodendo. Basti l’esempio di ilmiolibro.it: un portale che fa capo al gruppo l’Espresso dove gli utenti registrati sono più di 140mila. A ciascuno è data la possibilità di caricare online il proprio libro,stamparlo e metterlo in vendita attraverso l’e-commerce dedicato. Ad oggi sono già disponibili 16.000 titoli: un numero che fa impressione se lo si mette in rapporto con i 55.000 titoli che secondo l’Associazione Italiana Editori raggiungono il mercato attraverso il canale tradizionale.
A ben vedere, tuttavia, non è oro tutto quel che luccica. E il mio buon amico sarà felice di scoprire che gli stessi protagonisti del nuovo boom editoriale si dimostrano decisamente prudenti quanto si discute del valore dei volumi prodotti in self publishing.
Il presidente di Lulu.com Bob Young –che con le sue 10.000 novità mensili è il primo attore mondiale del nuovo mercato ha dichiarato ad esempio in una recente intervista: “Se in dieci anni di attività non ci è capitato nessun bestseller esplosivo mentre sono esplosi tanti best seller pubblicati da editori, significa che gli editori con il loro mestiere fanno la differenza”. Più duro il commento degli autori “veri”. Lo scrittore barese Nicola Lagioia, che è pubblicato da Einaudi, ha rilasciato ad Affariitaliani.it dichiarazioni al vetriolo a margine del convegno milanese If book then 2012. “Una Casa editrice per la quale il self-publishing significhi – come mi pare– eliminazione del filtro editoriale (…) si candida al suicidio, culturalmente parlando. Fare business in questo modo è avvilente e alla lunga anche un po’ autodistruttivo. Alla sua base non c’è una vera idea, un gesto creativo, ma il bisogno micragnoso di rattoppare qualche strappo economico. Non è profondo, non è cool, non è sexy, non è niente. È il messaggio in totale funzione del medium, e il medium serve a fare soldi con la logica degli spacciatori di cattivi prodotti”.
Mentre infuria la polemica –con il curioso caso degli editori “veri” che si affannano per presidiare contemporaneamente il mercato tradizionale e le nuove vie del self publishing– si profila all’orizzonte l’ennesima rivoluzione digitale patrocinata da Apple. Il colosso di Cupertino ha presentato ai primi di febbraio iBook Author, un pacchetto software gratuito che permette di costruire in pochi clic volumi digitali interattivi di grandissimo impatto.
In teoria, il programma è destinato soprattutto alla realizzazione di edizioni didattiche: ma è evidente che le ambizioni di Apple vanno ben al di là della nicchia dei testi scolastici. Le statistiche indicano infatti che il 65 percento degli utenti del tablet della Mela hanno letto e acquistato libri in formato digitale. Si tratta di un mercato potenziale sterminato: solo nel 2011 si sono venduti nel mondo qualcosa come 50 milioni di iPad: e per il 2012 si prevede un ulteriore aumento nella produzione. A chi non interesserebbe raggiungere 70 milioni e passa di potenziali lettori?
Con l’entrata in gioco della legge dei grandi numeri, gli operatori librari si trovano di fronte ad un grande bivio. Da un lato ci sono le grandi produzioni di successo – i bestseller alla Stephen King & Patricia Cornwell. Dall’altro, una miriade di piccole e piccolissime edizioni che alimentano un settore in cui si moltiplicano gli “editori indipendenti” e dove i margini economici e le possibilità di investimento culturale si riducono all’osso.
Come è già avvenuto per il mercato discografico, si va probabilmente verso la distruzione della “fascia media”. Agli editori veri –quei pochi a cui interessa ancora la qualità dei contenuti– resta comunque un’altra strada: produrre e distribuire titoli di alto livello, ben fatti sotto il profilo editoriale e curati nei più piccoli dettagli.
Per come si mettono le cose, non è detto che sia tutto ciò un male…
Fonte: Beesness