Dai 15 miliardi per costi burocratici ai 260 giorni per una licenza di costruzione: lo studio di Confartigianato sulle aziende fino a 20 dipendenti presenta alla politica il conto dei troppi "gap" italiani rispetto all’Europa
GIUSEPPE TURANI
Non faranno la rivoluzione, e nemmeno una marcia dei 40
mila, ma è sicuro che la pazienza degli artigiani italiani sta
finendo. Hanno fatto due conti e si sono accorti che, con le loro
aziendine da meno di 9 dipendenti, sono una colonna importante
della società italiana, ma hanno anche capito che questa stessa
società scarica proprio su di loro gran parte della sua
inefficienza. Si potrebbe anche parlare di una sorta di vera e
proprio attività predatoria della società italiana sugli artigiani.
Un solo esempio, tanto per cominciare. Risulta che il sistema delle
imprese italiane (tutte, grandi e piccole) spende ogni anno quasi
15 miliardi di euro per costi burocratici. Ebbene, più del 76 per
cento di questa immane somma (11,3 miliardi) è a carico degli
artigiani.
I quali artigiani non è che non abbiamo qualche benemerenza verso
la collettività. Sono tantissimi (anche se poi l’idraulico non si
trova mai). Se consideriamo tutte le imprese con meno di 20 addetti
si scopre che sono il 98,2 per cento del totale delle imprese
esistenti in Italia. E questo, probabilmente, è un dato che dice
poco (quante di queste aziende ci vogliono per fare una Fiat?).
Però presso queste microunità lavora di fatto il 60 per cento degli
addetti al settore privato (e qui la cosa si fa già più
interessante. Sempre queste aziendine producono quasi il 44 per
cento del valore aggiunto totale e realizzano il 40 per cento degli
investimenti realizzati dalle imprese italiane.
Insomma, quello rappresentato dalla Confartigianato è un mondo che
non si vede, di cui nessuno si occupa, ma che, grosso modo, vale la
metà del mondo aziendale italiano.
Nonostante questo, e nonostante siano tutte brave persone, di
solito schierate con i governi in carica, su di loro si è abbattuta
per anni e anni la furia cieca (o sapiente?) della società
italiana.
Adesso tutto questo popolo è un po’ arrabbiato e ha messo insieme
un dossier che dovrebbe rappresentare la vergogna della politica
italiana. Hanno elencato infatti ben 48 "ritardi" dell’Italia
rispetto all’Europa. "Ritardi" che poi vengono fatti pagare al
sistema delle aziendine artigianali. Non si salva quasi niente e
nessuno: burocrazia, energia, giustizia.
In mezzo ai 48 "ritardi" si può pescare a caso. Si scopre così che
in Italia è più faticoso persino pagare le tasse (che, ovviamente,
sono poi più alte): se nella media europea servono poco più di 160
ore per sbrigarsela, in Italia serve più del doppio, cioè 360 ore.
E le tasse, ma questo va da sé, sono più alte: se la media europea
è apri al 17,8 per cento dei profitti, qui da noi si arriva al 30,8
per cento. Non è proprio il doppio, ma manca poco.
Se in Europa servono quasi 160 giorni per avere una licenza di
costruzione, qui da noi ne occorrono quasi 260. Ma non basta: se
poniamo uguale a 100 i costi sostenuti in Europa per avere una
licenza di costruzione, in Italia si arriva di fatto a 300, cioè
tre volte tanto.
Lo Stato pretende molto, insomma, da queste piccole aziende, ma poi
le tratta male quando figura come loro cliente (anche i cessi della
burocrazia si rompono). Se nella media europea la pubblica
amministrazione liquida le sue fatture in 68 giorni, in Italia si
arriva a 138. Peggio di noi c’è solo il Portogallo, che paga in 155
giorni. Si racconta che dodici anni fa la pubblica amministrazione
italiana pagava in 87 giorni. Poi, evidentemente, le cose sono
peggiorate e oggi ci vuole quasi il doppio del tempo perché
l’elettricista veda saldato il conto della plafoniera dell’ufficio
passaporti.
Il capitolo più spaventoso nei rapporti fra artigiani e Stato in
Italia è quello della giustizia. Nel loro dossier di denuncia gli
artigiani scrivono che la giustizialumaca costa alle imprese 2,3
miliardi di euro di danni. E spiegano che cosa significa giustizia
lumaca.
In una causa civile il passaggio tra il primo e il secondo grado di
giudizio comporta mediamente un’attesa di 1.765 giorni, cioè 4
anni, 10 mesi e 5 giorni. Per una procedura fallimentare si arriva
a tempi biblici (ci sono speranze quindi per l’Alitalia…): in
questo caso l’attesa è di ben 3.140 giorni, cioè 8 anni, 7 mesi e
10 giorni.
Può anche capitare che si debba licenziare qualcuno. E, di nuovo,
si va a sbattere contro una giustizia che non funziona. In Italia
la durata di un processo di licenziamento è fra le più alte
d’Europa: 696 giorni, in media. Più del doppio della durata in
Francia, quasi nove volte la durata della Spagna e ben 36 volte
rispetto al tempo impiegato in Olanda.
La giustizialumaca irrita molto gli artigiani. Al punto che si sono
dilungati parecchio nel loro dossier. Così si scopre che, fra primo
grado e appello, un procedimento in materia di lavoro dura
mediamente in Italia qualcosa come 1.528 giorni, più di quattro
anni.
Ma l’Italia non è tutta uguale, e così gli artigiani spiegano che a
Messina una causa di lavoro dura in media 2.378 giorni (cioè 6
anni, cinque mesi e sei giorni). A Napoli sono un po’ più veloci:
soltanto 2.227 giorni. A Bologna si comincia a prendere velocità:
1.902 giorni. Curiosamente, poi, si viene a sapere che a Reggio
Calabria e a Potenza sono abbastanza svelti: nella cause di lavoro
se la cavano infatti in poco più di 1.800 giorni.
A Trento e a Torino, però, si impiegano (per lo stesso tipo di
causa) poco di più di 400 giorni. In sostanza, a Messina una causa
di lavoro dura 5,7 volte quello che dura a Trento. E qui sorgono
spontanee due domande. La prima riguarda lo stato del Mezzogiorno
italiano: è evidente che con questi tempi della giustizia civile un
imprenditore assennato è poco portato a andare da quelle parti. La
seconda è più insidiosa. Non è che sia impossibile, con le leggi
italiane, sbrigare una causa di lavoro in poco più di un anno,
tanto è vero che a Torino e a Trento lo fanno regolarmente. E
allora perché mai Messina deve impiegare quasi sei volte tanto,
visto che l’organizzazione della giustizia e le leggi sono
identiche?
Il capitolo giustizia si può chiudere citando altri due casi. Il
pagamento di un assegno (di un cattivo pagatore) ottenuto per via
giudiziaria: 645 giorni in Italia, 143 nella media europea, e
addirittura 100 giorni in Inghilterra. La musica non cambia se si
tratta di far rispettare un contratto, sempre per via giudiziaria.
In Italia ci vogliono mediamente 1.210 giorni, in Europa 414, cioè
un terzo.
E c’è il capitolo dell’energia. Alle nostre piccole imprese costa
il 22 per cento in più rispetto all’Europa. Il prelievo
sull’energia consumata dalle imprese artigiane in Italia è del 25,4
per cento, nella media europea si arresta al 9,5 per cento.
Insomma, poiché il tappezzerie di Stradella anche se strilla,
nessuno lo sente, diamogli una botta in testa e portiamo qualche
soldo in più nelle casse dello Stato. E il tappezziere? Faccia
qualche fattura in meno, così pareggia un po’ i conti.
Si potrebbe andare avanti con esempi di questo tipo per pagine e
pagine, ma forse è meglio fermarsi qui e fare qualche
ragionamento.
In Italia tutti parlano di rilanciare lo sviluppo, ma poi, quando
dai talk show televisivi si scende nella realtà, si scopre che al
Quarto Capitalismo (che sta soprattutto lungo l’asse MilanoVenezia)
non gli fanno le strade e le altre infrastrutture che servono per
commerciare efficientemente con il resto dell’Europa. Si scopre che
mentre in tutta Europa (e nel mondo) si sta correndo per dare a
tutti la banda larga (cioè l’autostrada informatica), qui da noi si
va avanti poco alla volta, affidandosi più che altro a regioni e
comuni che fanno quel poco che possono (in molti casi niente
addirittura). E gli artigiani sono trattati come abbiamo appena
visto. Impiegano due anni per incassare un assegno, tempi biblici
per incassare una fattura dalla pubblica amministrazione e, se per
caso incappano nel fallimento di una loro controparte o se devono
licenziare un dipendente, possono accendere ceri al santo locale
perché nessuna giustizia arriverà loro su questa terra. Meglio
"arrangiarsi" da soli.
Si scopre, leggendo con cura questo dossier della Confartigianato,
che in Italia, forse, "politica industriale" dovrebbe voler dire,
tanto per cominciare, fare esattamente quello che si fa nel resto
dell’Europa. Niente di più e niente di meno. Sarebbe già una
rivoluzione.