Dopo una fase di ripresa che nel 2006 ha superato le aspettative e ha mantenuto il ritmo di crescita anche nella prima metà di quest'anno, per l'industria italiana della moda si profila un 2008 con un'incognita: la scadenza, il primo gennaio, del periodo transitorio di limitazione delle esportazioni tessili cinesi (di tessile e abbigliamento) verso l'Europa (previsto da un accordo firmato a giugno 2005).
Il 2007 dovrebbe chiudersi con un incremento del fatturato del 2,9% a quota 69,5 miliardi di euro con esportazioni per 42,3 miliardi in crescita del 4% grazie soprattutto all'andamento del primo semestre e all'export. Per la seconda metà dell'anno, invece, si attende un rallentamento che si è avvertito già dai risultati del secondo trimestre nei settori a monte (vale a dire pelle e tessile), soprattutto per la debolezza del dollaro. A pesare anche il calo della domanda delle famiglie.
«La debolezza del dollaro, commenta Mario Boselli (nella foto), presidente della Camera nazionale della moda italiana, danneggia più i prodotti a monte, sui quali il fattore prezzo fa la differenza, che quelli finiti di fascia alta. In questo caso prevale il contenuto di immagine e stile di vita dei marchi made in Italy e le vendite continuano nonostante siano sempre più cari. Lo dimostra la grande energia che ha caratterizzato la recente settimana della moda milanese. I buyer hanno continuato a girare da uno show room all'altro per concludere gli ordini anche nei giorni successivi alla chiusura delle sfilate. Adesso l'interrogativo da porsi è: cosa succederà nel 2008»?
Secondo il Fashion economic trends, «sulla base dei dati a oggi disponibili ci si può attendere una crescita contenuta del fatturato inferiore a quella del 2007». Tuttavia se l'aspettiva, per quanto riguarda gli effetti della congiuntura internazionale, è negativa sulla dinamica dei consumi nella prima parte del 2008, sulla questione delle quote di export della Cina il discorso è diverso. E non è detto che gli effetti della fine dell'accordo sulle limitazioni porteranno esiti totalmente negativi.
«Innanzitutto, spiega Boselli, l'accordo del 2005 non ha bloccato le importazioni dalla Cina, ma ne ha permesso un aumento regolato, stemperando su tre anni l'impatto della liberalizzazione. Le imprese italiane, spinte dalla concorrenza dei produttori cinesi, hanno accelerato il riposizionamento su fasce di prodotto più alte. E chi non ha potuto concentrarsi sull'alto di gamma si è focalizzato sull'iper-specializzazione che in un mercato globale paga».
C'è poi da considerare il versante cinese. «In questi tre anni, aggiunge Boselli, la domanda interna cinese è cresciuta a tassi rapidissimi dando alla produzione nazionale la possibilità di trovare uno sbocco consistente anche sul mercato interno.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 10/10/07 a cura di Pambianconews